Considerazioni sul Concerto
 


Una scelta interessante

di Chiara Bertoglio

È un programma assai ghiotto e di piacevole ascolto, quello che ci verrà proposto nel concerto “Suoniamo Italiano”, ideato e realizzato da Giulia Pasquazi Berliri ed interpretato dalla Prometheus Chamber Orchestra diretta da Giordano Ferranti.
Spartito La musica strumentale italiana conobbe un periodo di straordinaria fioritura nel barocco e nel primo classicismo, in cui le scuole violinistiche dei Tartini, Corelli, Vivaldi e molti altri si accostavano alla musica per tastiera di Frescobaldi e Scarlatti prima e di Clementi poi: i grandi nomi appena citati sono appena la punta dell’iceberg di una civiltà strumentale eccezionale, che conobbe la specializzazione dei compositori-virtuosi e le pratiche di musica d’insieme di altissimo livello. Per dare un’idea dell’eccellenza della tradizione italiana sei-settecentesca, basti pensare allo studio attento e paziente che un compositore del calibro di Johann Sebastian Bach riservò ai modelli italiani, che trascrisse con cura e genio per gli strumenti a tastiera, e da cui trasse l’ispirazione fresca e spontanea della sua musica strumentale.
Se, tuttavia, in questo primo periodo la musica vocale coesisteva con quella strumentale ed entrambe raggiungevano livelli altissimi, in un secondo momento l’opera iniziò a prevalere sulla musica strumentale, che divenne sempre più di pertinenza dei Paesi di lingua tedesca. Anche a livello amatoriale, nell’Ottocento l’Italia era caratterizzata dalla musica cantata e dalle bande di fiati, che tuttavia spesso attingevano a loro volta dal repertorio operistico.
La Scala Naturalmente, tuttavia, le voci dell’opera hanno bisogno di un sostegno strumentale: accanto a compositori la cui vena di melodisti non corrisponde ad un livello altrettanto alto nella scrittura orchestrale, ve ne sono invece altri la cui preferenza per la voce umana è dettata esclusivamente dal fascino che essa esercita sul compositore-creatore e sulle richieste del mercato, ma che dispongono di un arsenale espressivo e di una tecnica della composizione strumentale davvero notevoli.
Se, tuttavia, ci sono stati grandissimi compositori di musica strumentale o di lieder che non si sono mai cimentati con l’opera lirica (per scelta o per necessità), anche l’operista più accanito non può non scrivere brani schiettamente strumentali, almeno in apertura della proprie opere liriche o come intermezzi al loro interno. Va detto, peraltro, che l’ouverture o il preludio dell’opera, essendo ciò che viene ascoltato all’inizio della rappresentazione, è uno dei momenti più importanti in cui il compositore deve industriarsi per catturare l’attenzione dell’uditorio ed impressionarlo favorevolmente. L’ouverture è come una siepe musicale, che serve a separare i rumori, le attività e i pensieri del quotidiano dal mondo magico, artificiale eppure spesso molto vero, del teatro in musica. Nei casi più raffinati ed in quelli più tardivi, inoltre, l’ouverture contiene in nuce il materiale musicale (o almeno quello emotivo) da cui germinerà l’intera opera; spesso, inoltre, le ouvertures (o i preludi o le sinfonie) iniziali delle opere sono più variegate e ricche di contrapposizioni di quanto accada ai brani strumentali non destinati all’opera, proprio in quanto spesso esse devono rappresentare nel breve spazio di pochi minuti la densità e l’avvicendarsi di una serie di elementi riccamente contrastati dal punto di vista emotivo.
Salieri È perciò estremamente interessante la scelta di iniziare il programma musicale con la sinfonia da Prima la musica e poi le parole di Antonio Salieri. Il compositore, che da Pushkin al film Amadeus è stato ingiustamente confrontato con Mozart (e talora addirittura accusato di averlo ucciso) pone invece in musica, con un bellissimo esempio di metateatralità, il problema della priorità della fantasia musicale sul testo verbale. Se, infatti, le prime opere liriche sottolineavano la dipendenza della melodia dal testo, di cui la musica era semplicemente un’amplificazione retorica ed un rafforzamento, via via la musica assunse una sempre maggior indipendenza, reclamando la priorità creativa. Questa emancipazione portò, nei paesi di lingua tedesca, alla fioritura della musica esclusivamente strumentale ed alla teorizzazione della “musica assoluta”, mentre in Italia diede origine alle numerose opere la cui bellezza maggiore risiede nelle splendide melodie, senza che venga attribuito un peso eccessivo alle incongruenze e talora agli inestetismi del libretto.
La sinfonia, breve e vivacissima, si adatta benissimo alla pièce, che è disimpegnata, ironica e vivace come uno champagne d’annata; la destinazione aristocratica dell’uditorio si indovina nell’uso sapiente dei timbri “solenni” dell’orchestra, come i fiati e le percussioni, mentre agli archi è affidata la briosità di uno stile effervescente e quasi goldoniano.
Luigi Cherubini Benché Salieri e Luigi Cherubini fossero quasi contemporanei, un abisso separa la brillantezza disimpegnata e lieve della sinfonia del primo dalla possente costruzione e dal pathos drammatico dell’ouverture del secondo. Indubbiamente, la differenza dei soggetti teatrali è perfettamente rispecchiata dal diverso approccio musicale: laddove il “divertimento teatrale” di Salieri è un’ironica visione della contemporaneità, la tragedia greca per eccellenza, con il suo arsenale di riflessione antica e sempre attuale sul destino dell’uomo è al centro della composizione di Cherubini. Il grande compositore italiano, che ingiustamente viene trascurato da una storia della musica troppo connotata dal punto di vista della geografia culturale, ci offre con questa ouverture uno dei saggi più notevoli della sua genialità: è un brano compatto, serrato, che non lascia scampo, proprio come il fato della tradizione greca. Le sezioni più drammatiche, con i loro arpeggi di triade discendenti e poderosi, si alternano a momenti di forti contrasti musicali (quasi a dare l’idea della follia o dell’incongruenza delle azioni umane) e a passaggi di tenerezza e lirismo; l’orchestrazione, magistrale, si colloca perfettamente su quel crinale fra classicismo e romanticismo in cui l’Italia della poesia seppe dare il meglio di sé.
A un secolo di distanza da Cherubini, l’ispirazione della tragedia non veniva più dalla classicità greca, bensì dall’attualità italiana, e, in particolar modo, proprio da quel mondo del meridione d’Italia che era stato legato così strettamente alla cultura della Magna Grecia. Qui, i colori forti e le tinte fosche dei temi eterni dell’amore, della gelosia, della vendetta e del destino si impastano ad uno sfondo mediterraneo che ricorre, ma che è reso quasi quotidiano dal riferimento all’oggi. Eppure, nel cuore di uno dei drammi musicali più sanguigni ed appassionati dell’Ottocento italiano, il celeberrimo Intermezzo della Cavalleria rusticana è un momento di puro lirismo, di tenerezza e di incanto: una melodia raffinata ed espressiva, nobile ed appassionata, che ha conquistato l’immaginazione e le emozioni di molti, anche al di là del contesto per il quale è stata scritta, e che ha conquistato al suo creatore una fama duratura.
Saverio MercadanteAtmosfera mediterranea, ma di ben altro genere, per la briosa sinfonia dall’opera I due Figaro di Saverio Mercadante, recentemente riscoperta e dovutamente resa agli onori delle scene. La collocazione spagnolesca, comune ad altre celebri composizioni operistiche ambientate a Siviglia, è in questo caso enfatizzata dalla destinazione della musica ad un pubblico spagnolo, per il quale essa non rappresentava un esotismo o una patina di color locale, bensì il linguaggio musicale della quotidianità. Il compositore unisce magistralmente una sequenza di ritmi tipici della musica spagnola in un armonioso accostamento, che gli permette di tracciare un itinerario ricco di vivacità (ma anche di tenerezza), toccando le danze più classiche della tradizione ma riuscendo a non dare l’impressione di una giustapposizione artificiale o arbitraria.
Gaetano Donzetti Ricca di colori, ma caratterizzata da una più forte contrapposizione di atmosfere, è l’ouverture dal Roberto Devereux di Gaetano Donizetti. L’ambientazione gioca anche qui un ruolo cruciale: nel contesto delle opere collegate al mondo della prima modernità britannica, Donizetti si appoggia al tema dell’inno nazionale inglese, God save the Queen, la cui nobile melodia ben si presta a significare l’ambivalenza espressiva tra accorata sofferenza e gloriosa celebrazione, fra pompa e preghiera, e fra l’aspetto maestoso e solenne dell’ufficialità e le vicende umane che accomunano le persone semplici ai potenti. La dolcezza delle melodie donizettiane si sposa alla sfavillante magnificenza di un’orchestrazione che non rifugge dagli effetti speciali timbrici, e non perde occasione per conferire anche un aspetto tragico agli eventi narrati.
Gioachino Rossini La contrapposizione di sezioni molto contrastanti fra loro si ritrova, estremizzata, anche nella giustamente celeberrima ouverture dalla Semiramide di Gioachino Rossini, punteggiata da ritmi inesorabili (a partire da quello, quasi un’ebollizione, dell’inizio, e passando dai pizzicati degli archi, fino a giungere alle sfrenate galoppate degli archi ed alle linee nette del grande crescendo rossiniano che per ben due volte raggiunge il colmo dell’intensità). Questa ouverture, giustamente considerata una delle più difficili ed impegnative del pur mediamente complesso repertorio rossiniano, perviene magistralmente a coniugare la verve tipica del maestro pesarese con la sua altrettanto classica forza emotiva ed espressiva, che sfiora la tragedia e la tenerezza ma non riesce a rinunciare all’ironia ed alla fantasia più sfrenata.
Gaspare Spontini Un simile contrasto di luci ed ombre, seppur senza l’ironia e il sorriso rossiniani, caratterizza La Vestale di Gaspare Spontini, la cui ouverture tuttavia si presenta come una partitura molto interessante dal punto di vista compositivo, non solo per l’ampio uso di armonie affascinanti, inconsuete, originali e inattese, ma anche e soprattutto per il sapiente impiego di un elemento compositivo, l’appoggiatura (che nella retorica musicale corrispondeva, anche onomatopeicamente, al “sospiro”) come colonna portante e leitmotiv della composizione, sia nei tempi più lenti sia in quelli più veloci. A maggior ragione, quindi, l’uso delle triadi risulta ancor più possente e delineato, in contrasto con l’ambiguità dolente delle appoggiature.
Giacomo Puccini La sapiente regia delle emozioni caratterizza anche l’intermezzo dalla Manon Lescaut di Giacomo Puccini, la cui magistrale competenza nell’uso delle armonie e dei timbri orchestrali risulta chiara ed evidente in questo brano carico di espressività. La musica di Puccini sembra sgorgare dal filo di voce con cui gli archi solisti con sordina iniziano il canto, e si volge poi alle morbide sonorità dell’arpa come sostegno ricco e delicato al tempo stesso per la melodia. Anche qui, il risultato di questo germoglio di musica è un pieno orchestrale che non risparmia la presenza delle percussioni più possenti, ma – a differenza delle ouverture – la diversa destinazione dell’intermezzo come “pausa” meditativa (rispetto alla necessità di catturare l’ascoltatore nel brano inaugurale) permette minori contrapposizioni ed un più fluido scorrere della musica nell’opulenza melodica tipica di Puccini.
Vincenzo Bellini Nella Sinfonia dalla Norma di Vincenzo Bellini, un elemento ricorrente è quello che in termini musicali si chiama “gruppetto”, ossia il girare delle note attorno ad un loro fulcro. Si tratta di un elemento che tornerà nell’aria più celebre dell’opera, Casta Diva, e che qui viene inserito quasi sommessamente, dopo la solennità degli accordi iniziali che si alternano ad eco musicali che sembrano altrettanti punti interrogativi. La sinfonia fa ampio uso del grado congiunto, spesso evocando un faticoso tentativo di raggiungere vette melodiche che sembrano sempre fuori portata; talora, tuttavia, irrompe inattesa la dolcezza della melodia in modo maggiore, che ancora una volta si avvale del timbro pastoso e morbido delle arpe per esserne sostenuta. La luce e le ombre con cui Bellini sempre riveste la sua musica si mostrano qui in tutta la loro ricchezza, sottolineata anche dal sapiente uso di modulazioni sorprendenti, audaci, ma sempre consequenziali e mai aggressive.
Giuseppe VerdiA perfetta conclusione di questo itinerario fra le battute iniziali di alcune fra le più celebri ed importanti opere della grande tradizione italiana, non poteva mancare Giuseppe Verdi, la cui abilità nella scrittura strumentale è testimoniata anche dallo splendido quartetto per archi, che costituisce una delle vette della musica da camera italiana dell’Ottocento. Come in molti altri casi, anche nell’ouverture da Un giorno di regno il compito di attrarre l’attenzione musicale viene affidato ai richiami delle triadi, possenti evocatori di solennità e di richiamo. Il vigore verdiano risulta particolarmente chiaro nel trattamento efficace e sanguigno del materiale musicale, pur con l’ampia presenza di ritmi di danza e momenti di levità e grazia quasi neoclassici. Molto interessanti sono gli impasti timbrici scelti dal compositore, con l’intersecarsi di complesse sonorità orchestrali a creare un suono scintillante e sfavillante, che spesso viene opposto da Verdi a suoni gravi di colore quasi grottesco.
La mano già sapiente del giovane compositore riesce a condurre gli ascoltatori ad un’entusiasmante conclusione, in cui il tragitto fra le ricchezze ed il fascino delle ouvertures costituisce un invito ad assaporare ed a gustare nella loro interezza sia i capolavori più celebri fra quelli eseguiti in questa occasione, sia quelli meno noti ma che meritano di entrare a pieno titolo nel repertorio dei maggiori teatri lirici.