"Una porta era aperta nel cielo. La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva: sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito."   (Apocalisse 4,1)


Introduzione all'opera

Il Dies irae è una celebre sequenza in lingua latina attribuita a frà Tommaso da Celano, discepolo di San Francesco, ed è una composizione poetica medievale fra le più riuscite.
Quest'inno rappresenta una innovazione stilistica rispetto al latino classico: il ritmo è accentuativo e non quantitativo, i versi sono composti con rima baciata – ad eccezione delle ultime due strofe – ed il metro è trocaico.

Il Dies irae è un richiamo potente al Giudizio finale, al quale nessuno potrà sottrarsi. Questo canto liturgico, inserito nella Messa di rito romano per i defunti (il Requiem) descrive la fine dei tempi e il gran giorno: l'ultima tromba che raccoglie le anime davanti al trono di Dio, dove i buoni saranno salvati e i malvagi condannati al fuoco eterno.

"Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti gli angeli, prenderà posto sul suo trono glorioso. Davanti a lui verranno radunate tutte le genti ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno a destra: venite, o voi, benedetti del Padre mio a prendere possesso del Regno... e a quelli della sinistra dirà: andate via da me o voi, i maledetti, al fuoco eterno"

(Mt 25, 31-46)


Il testo si articola essenzialmente in due blocchi principali, che sono nettamente distinti anche dal punto di vista tematico, più un terzo di minore lunghezza.
Nel primo blocco (vv. 1-21) prevale il tempo futuro e il tema centrale è la visione apocalittica del Giudizio universale, che pone l'uomo con tutta la sua miseria di fronte alla maestà di un Dio descritto con accenti veterotestamentari. L'angoscia della visione è resa anche dalla presenza di proposizioni esclamative (vv. 4-6) o interrogative (vv. 19-21).
Nel secondo blocco (vv. 25-51) prevale l'imperativo, che è per eccellenza il modo verbale della preghiera. Allo sgomento dinanzi alla potenza divina subentra la speranza nell'infinita misericordia del Creatore. In questo secondo blocco compaiono temi desunti dal Nuovo Testamento. I vv. 22-24 fanno da cerniera tra il primo e il secondo blocco: dapprima viene riaffermata la consapevolezza della terribile potenza di Dio («Rex tremendae maiestatis»); ma poi, tramite l'abbandono al mistero della grazia («qui salvandos salvas gratis») si apre la strada alla speranza e quindi alla preghiera vera e propria («salva me, fons pietatis»). Non viene certo meno il senso dell'inadeguatezza dell'uomo (che anzi è nuovamente sottolineata con forza al v. 40); ma il pessimismo sulla sua natura è rischiarato dal sacrificio di Cristo, che ha patito sulla croce proprio per salvare l'umanità dal peccato (vv. 25-30).
Il terzo blocco, il più breve, occupa i vv. 52-57, ripresenta sinteticamente l'alternanza tra il motivo del timore e quello della preghiera e della speranza. Gli ultimi tre versi, che si discostano metricamente dal resto del componimento, testimoniano della natura liturgica di questo testo (che veniva intonato nell'ufficio dei Defunti).



Il Dies irae

Latino

Dies Irae, dies illa
Solvet saeclum in favilla:
Teste David cum Sybilla.

Quantus tremor est futurus,
Quando judex est venturus,
Cuncta stricte discussurus.

Tuba, mirum spargens sonum
Per sepulcra regionum
Coget omnes ante thronum.

Mors stupebit et natura,
Cum resurget creatura,
Judicanti responsura.

Liber scriptus proferetur,
In quo totum continetur,
Unde mundus judicetur.

Judex ergo cum sedebit,
Quidquid latet, apparebit:
Nil inultum remanebit.

Quid sum miser tunc dicturus?
Quem patronum rogaturus,
Cum vix justus sit securus?

Rex tremendae majestatis,
Qui salvandos salvas gratis,
Salva me, fons pietatis.

Recordare, Jesu pie,
Quod sum causa tuae viae
Ne me perdas illa die.

Quaerens me, sedisti lassus,
Redemisti Crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Juste judex ultionis,
Donum fac remissionis
Ante diem rationis.

Ingemisco, tamquam reus,
Culpa rubet vultus meus
Supplicanti parce, Deus.

Qui Mariam absolvisti,
Et latronem exaudisti,
Mihi quoque spem dedisti.

Preces meae non sunt dignae,
Sed tu bonus fac benigne,
Ne perenni cremer igne.

Inter oves locum praesta,
Et ab haedis me sequestra,
Statuens in parte dextra.

Confutatis maledictis,
Flammis acribus addictis,
Voca me cum benedictis.

Oro supplex et acclinis,
Cor contritum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimosa dies illa,
Qua resurget ex favilla

Judicandus homo reus.
Huic ergo parce, Deus:

Pie Jesu Domine,
Dona eis requiem. Amen.

Italiano

Giorno d'ira, sarà quel giorno che
dissolverà il mondo terreno in cenere
come annunciato da Davide e dalla Sibilla.

Quanto terrore verrà
quando il giudice giungerà
a giudicare severamente ogni cosa.

La tromba diffondendo un suono stupefacente
tra i sepolcri del mondo
spingerà tutti davanti al trono.

La Morte e la Natura si stupiranno
quando risorgerà ogni creatura
per rispondere al Giudice.

Sarà presentato il libro scritto
nel quale è contenuto tutto,
dal quale si giudicherà il mondo.

E dunque quando il Giudice si siederà,
ogni cosa nascosta sarà svelata,
niente rimarrà invendicato.

In quel momento che potrò dire io, misero,
chi chiamerò a difendermi,
quando a malapena il giusto potrà dirsi al sicuro?

Re di tremendo potere,
tu che salvi per grazia chi è da salvare,
salva me, fonte di pietà.

Ricorda, o pio Gesù,
che io sono la causa del tuo viaggio;
non lasciare che quel giorno io sia perduto.

Cercandomi ti sedesti stanco,
mi hai redento con il supplizio della Croce:
che tanto sforzo non sia vano!

Giusto giudice di retribuzione,
concedi il dono del perdono
prima del giorno della resa dei conti.

Comincio a gemere come un colpevole,
per la colpa è rosso il mio volto;
risparmia chi ti supplica, o Dio.

Tu che perdonasti Maria di Magdala,
tu che esaudisti il buon ladrone,
anche a me hai dato speranza.

Le mie preghiere non sono degne;
ma tu, buon Dio, con benignità fà
che io non sia arso dal fuoco eterno.

Assicurami un posto fra le pecorelle,
e tienimi lontano dai caproni,
ponendomi alla tua destra.

Una volta smascherati i malvagi,
condannati alle fiamme feroci,
chiamami tra i benedetti.

Prego supplice e in ginocchio,
il cuore contrito, come ridotto a cenere,
prenditi cura del mio destino.

Giorno di lacrime, quello,
quando risorgerà dalla cenere

Il peccatore per essere giudicato.
perdonalo, o Dio:

Pio Signore Gesù,
dona a loro la pace. Amen.



Aspetti storico-liturgici

di Corrado Maggioni

Cos'è la Sequenza? Dal vocalizzo dell'ultima sillaba dell'Alleluia, detto appunto sequentia, prese le mosse nel medioevo l'adozione di versetti melodici che, dai melismi dello iubilus alleluiatico, si svilupparono in una forma a se stante, divenendo dal sec. XI la composizione poetica detta Sequenza o Prosa, con strofe ritmate eseguite da due cori a voci dispari, assai prossima all'inno.
Noto maestro di Sequenze fu il parigino Adamo di san Vittore (†1192) .
L'uso delle Sequenze ebbe grande successo e incremento, incontrando l'apprezzamento del popolo per la forma semplice e sillabica della melodia, che si prestava al canto in chiesa come fuori di essa. Essendo tuttavia elemento recente, il genere non trovò accoglienza nel Missale Romanum edito da san Pio V (1570), eccetto le 5 Sequenze assai note: Victimae Paschali per Pasqua, attribuita a Wipo di Burgundia (†d.1048); Dies irae, per le messe dei defunti, attribuita a Tommaso da Celano (†1260); Lauda Sion Salvatorem per il Corpus Domini (composta nel 1264 da san Tommaso d'Aquino); Veni Sancte Spiritus per la Pentecoste, attribuita a Innocenzo III (†1216); Stabat Mater, composta da Jacopone da Todi (†1306).

La Sequenza Dies irae. Dopo il Requiem, canto d'ingresso alla messa per i defunti, il Dies irae è certo il pezzo più noto di tale messa, a motivo dell'intensità dei sentimenti espressi da chi, riconoscendosi peccatore, implora accoratamente la misericordia del Giudice supremo nell'ultimo giorno. Ispirata nel preludio a un passo del profeta Sofonia 1,15-16 (Dies irae, dies illa, dies tribulationis et angustiae... dies tubae et clangoris), il testo è tessuto con allusioni della Sacra Scrittura, sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, senza tralasciare cenni a concezioni religiose pagane come la figura della Sibilla. Il tema del Giudizio universale ha fatto ipotizzare che fosse originariamente composta per la messa della I domenica di Avvento, in sintonia con il vangelo di quel giorno. Il testo primitivo comportava 17 strofe, di cui l'ultima chiusa dal verso gere curam mei finis. Le strofe Lacrymosa dies illa qua resurget ex favilla / Iudicandus homo reus; huic ergo parce Deus sono riprese da altra composizione del XII sec.; gli ultimi versi Pie Iesu Domine, dona eis requiem, privi di accento e di rima, furono inseriti per imprimere alla Sequenza un riferimento ai defunti. E così, recepita nelle messe per i defunti dai Messali francescani fin dal sec. XIII, passò poi nel Misssale Romanum (1570).
Rispetto al consueto ordinamento, nella messa da Requiem erano omessi i canti del Gloria e dell'Alleluia (sostituito da versetti del Tractus); rimanevano invariati i canti dell'Ordinario (Kyrie, Sanctus, Agnus Dei) e del Proprio, ossia i canti d'introito (Requiem), del Graduale e Tratto (Requiem – Absolve, Domine), della Sequenza (Dies irae), d'offertorio (Domine Iesu Christe) e di comunione (Lux aeterna); altri canti quali Libera me, Domine; In paradisum; Ego sum resurrectio et vita, appartenevano al rito di assoluzione al termine della messa funebre. Dal sec. XVI vari compositori si cimentarono con la messa da Requiem, creando altissimi capolavori musicali.
La Sequenza Dies irae non figura più nell'odierno Missale Romanum riformato dopo il Concilio Vaticano II. Perché tale omissione? C'è da pensare che non sia imputabile al rifiuto della sensibilità medievale traboccante nel Dies irae, quanto al ripristino anche nelle messe per i defunti del canto dell'Alleluia (non previsto nel Messale tridentino ma testimoniato nell'uso romano fino al sec. IX e anche oltre): al canto alleluiatico, espressione della fede pasquale della Chiesa, mal si accostava un prosieguo di tono descrittivo-supplicativo, alla prima persona singolare, quale quello che connota la nostra Sequenza. Inoltre, alla varietà di scelta nelle letture bibliche prevista dal rinnovato rito della messa, conseguiva una varietà di relativi Salmi responsoriali. Del resto, anche le altre Sequenze del Messale furono conservate come facoltative, dando la preferenza ai testi biblici più che a composizioni poetiche. Tuttavia, a conferma che non ci fu rifiuto, il testo Dies irae compare oggi, nella liturgia postconciliare, distinto in tre scansioni, come inno dell'Ufficio Divino per i giorni dell'ultima settimana dell'anno liturgico, caratterizzata dall'attesa del giorno del Signore. Al testo medievale, sono state apportate minime varianti: l'aggiunta di una strofa dossologica che chiude ogni parte dell'inno: O tu, Deus maiestatis, alme candor Trinitatis, nos coniuge cum beatis ( espressioni provenienti dal sec. XV); il verso Qui Mariam absolvisti, dove il riferimento era all'anonima peccatrice del vangelo di Lc 7,37, identificata senza però riscontri con Maria Maddalena, è stato modificato in Peccatricem qui solvisti.

Interpretazione musicologica

di Chiara Bertoglio

Il concerto E il settimo angelo suonò ci propone un affascinante ed inusuale excursus tra alcuni dei più importanti Requiem nella Storia della Musica. Il "Requiem" è una preghiera liturgica, dal testo assai breve, che è posta all'inizio del rito delle esequie cristiane; come tale, può essere musicata singolarmente, ma, più spesso, funge da introduzione alla Messa di Requiem. In tal caso, spesso i musicisti tendono a caratterizzare assai fortemente questo brano, trascendendo quasi il suo valore immediato, fino a renderlo una sorta di epigrafe dell'intera composizione; e, certe volte, le Messe di Requiem hanno assunto dimensioni ed imponenza davvero gigantesche.
Accingendoci ad affrontare questo argomento, ci è sembrato meno interessante affrontare ciascuno dei brani in programma nei modi di una guida all'ascolto (che, vista la quantità e la qualità dei brani in programma, avrebbe per forza dovuto essere imprecisa e sommaria); abbiamo perciò preferito proporre una breve storia dell'evoluzione in musica del concetto di "Requiem", della visione della vita e della morte, di ciò che la musica ci dice del pensiero dei musicisti e della loro epoca.
La morte è un argomento sempre scomodo e sempre attuale, sempre sconvolgente e sempre presente; di alcuni compositori, addirittura, è stato detto che essa era quasi la musa ispiratrice del loro intero corpus creativo (si pensi, per esempio, a Mussorgskij). Affrontare un Requiem implica perciò prendere di petto il problema della morte, dichiarare chiaramente la propria fede ed i propri dubbi, le proprie paure e le proprie certezze; non si dimentichi, peraltro, che i Vangeli tramandano la paura e l'angoscia provate da Cristo stesso nei confronti della morte.
Allo stesso tempo, per un cristiano, la morte non è che un passaggio, un crinale, una porta che lo inserisce nella vita eterna, nella vita della felicità perfetta. Per il cristiano, la "vera" morte appartiene al passato, a quando l'uomo ha scelto liberamente di rompere con Dio tramite il peccato. La "vera" morte è quella che Cristo ha affrontato a viso aperto, per tutti e per ciascuno, ed ha vinto con la sua risurrezione; ed è al mistero pasquale che il cristiano è stato "incorporato", associato e fatto partecipe nel battesimo. Il transito da questa vita all'altra, con tutto il suo carico di sofferenza e di mistero, non è tuttavia altro che un transito: un passaggio che i "santi", come i primi cristiani, attendono con gioia e festeggiano.
Nel cammino della Storia della musica, assistiamo ad un progressivo spostarsi della Messa di Requiem dalla chiesa alla sala da concerto: un progressivo allontanamento di questa composizione dalla propria immediata funzione liturgica, anche a causa delle dimensioni che divenivano, gradualmente, del tutto inadatte alla celebrazione. Parallelamente, anche la concezione teologica si modificava: la liturgia, propriamente, è la partecipazione della Chiesa all'amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre nello Spirito Santo. Di conseguenza, essa si fa certamente carico di tutte le sofferenze e le domande individuali, ma le sublima in un'unità che non è somma di individui, ma trascendenza della comunione. Invece, quando la Messa di Requiem si caratterizza molto fortemente, ciò viene naturalmente a mancare: un'eventualità che si realizza, per esempio, quando un Requiem è chiaramente improntato alla personalità del defunto, o, più spesso, alla visione che della morte ha il compositore stesso.
Assistiamo, perciò, ad una varietà di atteggiamenti che forse non ha l'eguale, e che dipende dalla personalità del compositore, dal clima sociale e religioso della sua epoca, dalle domande filosofiche e dal contesto in cui si trovava ad operare. Benché non sia inserito in un Requiem, forse uno dei brani più sereni e struggenti è il coro conclusivo della Passione secondo Matteo di Bach, in cui sulla passione e morte di Cristo si stende la tenerezza di un riposo tranquillo in attesa della risurrezione. In modo diverso, un altro brano non propriamente "sacro" esprime un atteggiamento di speranza, quasi di gioia, in una pace sublime: si tratta della versione di uno spiritual dei neri d'America inserita da Dvorak nel movimento lento della Sinfonia dal Nuovo Mondo, in cui la morte è vista come un "goin' home", un andare a casa.
Il Romanticismo ha vissuto una singolare attrazione nei confronti della morte, che sembra quasi segnare con la sua presenza non solo le esistenze, spesso brevi e tormentate, dei grandi compositori romantici, ma anche l'intero diciannovesimo secolo. Un fascino che, tuttavia, è assai ambivalente: la fede consapevole e forte dei secoli precedenti si sfuma, si vena di dubbi; e, paradossalmente, proprio questo sedicente progresso filosofico porta a caricare di paure e quasi di superstizione l'atteggiamento dell'uomo di fronte alla morte. Ecco quindi che le Messe di Requiem ottocentesche sono spesso estremamente ricche di sentimento (preghiera, dolore, pentimento, speranza, tenerezza) ma sovente sono percorse, a mo' di fiume carsico, dalla paura del giudizio divino.
I tormenti del giansenismo e i corrispondenti movimenti delle altre confessioni cristiane segnano profondamente le composizioni di questo periodo: orchestre sempre più grandiose, con strumenti sempre più potenti e numerosi si fanno carico di esprimere in musica il terrore di fronte al giudizio di Dio. È singolare come il progressivo allontanarsi della società nel suo insieme (dei pensatori, dei filosofi, della gente comune nella sua pratica religiosa) dalla spiritualità non porti, come pensava Nietzsche, all'emergere di superuomini che non temono la morte, bensì ad una concezione della religiosità che pone l'accento più sulla paura che sul perdono, più sulla colpa che sulla misericordia, più sull'angoscia che sulla speranza.
Ed è proprio nel Novecento, sorprendentemente, nel secolo più violento e disperato, che la musica ritorna a farsi portatrice di un'immagine diversa della morte: tra i compositori contemporanei, è sempre più frequente la composizione di Requiem che abbiano una visione serena, luminosa, gioiosa: dal Lux Aeterna dell'ungherese Ligeti fino alla visione schiettamente pasquale della compositrice russa Gubajdulina, in cui la preghiera per i defunti diviene, semplicemente e meravigliosamente, un trionfo alleluiatico.

Il Requiem di Donizetti ha avuto una carriera a scacchi...

La notizia della morte di Vincenzo Bellini, avvenuta il 23 settembre 1835 vicino a Parigi, toccò profondamente Gaetano Donizetti. Sebbene il compositore siciliano nutrisse dei sospetti verso il collega bergamasco, l'atteggiamento di Donizetti nei confronti di Bellini fu comunque e sempre sereno e di sincera stima.
Al punto che, in onore del collega musicista scomparso, Donizetti chiese a Ricordi, il loro editore comune, di scrivere qualcosa di adatto e così compose il Lamento per la morte di Bellini, per voce e pianoforte. Successivamente da Napoli gli arrivò una richiesta per una vera e propria Messa di Requiem e Donizetti avviò il progetto, ma il tempo non fu sufficiente e l'opera è rimasta incompiuta. Originariamente nato come un lavoro in memoria di Bellini, questa Messa non fu, infatti, mai terminata, pubblicata solo come esisteva nel 1870 e, ironia della sorte, la sua prima esecuzione avvenne proprio in occasione della rimozione dei resti mortali di Donizetti per essere tumulati in un sito più grande. La Messa di Requiem in Re minore manca di alcune parti: un Sanctus , il Benedictus e l'Agnus Dei non sono presumibilmente mai stati composti. E così ecco perché alcune delle orchestrazioni differiscono a seconda delle versioni utilizzate per questa particolare redazione. Tuttavia Donizetti riuscì ugualmente a dimostrare con questo suo lavoro incompiuto di essere un potente e irresistibile compositore religioso e corale, al punto che Verdi quarant'anni dopo, quando iniziò a scrivere la sua versione del Requiem, sicuramente doveva conoscere questo pezzo. La tensione drammatica dell'opera, sebbene incompiuta, crea un tono unitario e ispirato ad una religiosità sincera e spontanea, che segnò inevitabilmente la ben più nota versione verdiana.
Valeer De Vlam Requiem Donizetti Particolarmente forte nella sua intensità è il Dies Irae la cui partitura, a seguito del paziente lavoro di intera revisione ed anni di studio da parte del maestro Valeer De Vlam, è risultata completa per "soli", coro e orchestra e si distingue per la ricchezza e per la grande suggestione lirica degli episodi solistici, corali ed orchestrali.
La partitura a disposizione e facilmente reperibile da parte dei musicisti è, infatti, quella per coro e pianoforte e, se la Filarmonica Prenestina potrà eseguire il brano nella sua completezza lo deve proprio alla disponibilità del Maestro De Vlam a "prestare" il suo lavoro per questa unica esecuzione del 18 novembre nella Basilica di San Pietro in Vincoli.

È necessario precisare che esiste un'altra partitura della messa di Requiem del 1976 a cura di Vilmos Lesko* e anche questa per "soli", coro e orchestra. Questa è, infatti, quella più conosciuta, reperibile e normalmente rappresentata, mentre quella di De Vlam si ritiene che in Italia non sia mai stata ancora eseguita.

*Vilmos Leskó è nato in Ungheria e ha studiato Composizione e Direzione d'orchestra a Budapest, a Ginevra e ad Amburgo. A vent'anni è già assistente del M° del Coro all'Opera di Ginevra; successivamente collabora alla Opernschule di Amburgo. Come compositore, il primo successo arriva con il brano sinfonico Trois idées fixes, poi vince due concorsi internazionali. Trasferendosi in Italia collabora con case editrici e discografiche, pubblicando lavori per le edizioni Ricordi e Rugginenti. Ha ottenuto la cittadinanza italiana e attualmente è docente all'Istituto Musicale Pareggiato "G. Donizetti" di Bergamo.